di Paolo Ceccato
Cammino in un bosco, vedo un’orma sul terreno e associo ad essa il passaggio di un animale. Ho pensato per “analogia”. Io non ho visto l’animale, ma da un elemento che so appartenergli, ho compreso che un animale è transitato di là.
L’analogia associa elementi diversi tra loro, individuando un legame non evidente né logico. È un processo anche creativo, molto composito, esposto agli errori, ma in grado di uscire dagli schemi e trovare nuove soluzioni.
Una sera tra amici, si discute in allegria, e poi: “E noi ti lasciamo volentieri nel tuo mondo analogico”, frase rivolta al sottoscritto.
Il significato di “analogico”, oggi, è per lo più ridotto a “non digitale”, ovvero di superato, non al passo con i tempi. Come il sottoscritto, appunto. Vivere in un mondo analogico significa rifiutare la digitalizzazione in atto e restare, come si dice, indietro. Se ho capito bene, contrapposto a “digitale”, nel significato di “analogico” c’è anche una relazione con grandezze fisiche, come lo spazio. L’orologio analogico, ad esempio, segna il tempo muovendo le lancette in uno spazio fisico, il quadrante, mentre l’orologio digitale indica l’ora attraverso alcuni numeri in un display. Ciò vuol dire che la tecnologia digitale ci allontana dalla nostra realtà quotidiana, quella “là fuori”, sostituendola con una realtà, appunto, virtuale? Ancora: in una realtà virtuale, qualcosa può ancora “andar storto”, ovvero c’è spazio per l’inatteso, il sorprendente che non sia un black out elettrico che fa spegnere tutto?
Tempo fa, mi fu spiegato quanto la scrittura manuale influisca anche sulla percezione della realtà. Ad esempio, scrivere da sinistra verso destra o scrivere da destra verso sinistra, pare modificare il nostro modo di pensare, la relazione con il tempo e con gli eventi che vi accadono. Ancora: la realtà “analogica”, quella “là fuori, è gratuita e contraddittoria, mentre quella virtuale è pur sempre una produzione industriale, a pagamento e logica, fruibile solo attraverso tecnologie complesse e perennemente aggiornate. Noi oggi viviamo sempre più circondati da vere e proprie “protesi” tecnologiche: le sappiamo utilizzare benissimo, dei loro principi di funzionamento sappiamo poco o nulla, senza di loro ci è sempre più difficile vivere la nostra quotidianità. Facilitano la vita, ma creano dipendenza e, se qualcosa “va storto”, ci mancano quelle abilità per far fronte all’inatteso. Forse perché, a differenza degli strumenti, utili quando dobbiamo compiere un’azione specifica, la protesi sostituisce una funzione naturale con una artificiale, con tutte le conseguenze del caso: finché funziona, tutto bene, ma se c’è un’imprevisto, mi sento impotente.
Cammino in un bosco, vedo un’orma sul terreno, estraggo il mio smartphone e, se “c’è campo”, inquadro l’orma e sul monitor leggo a quale animale quell’orma appartiene, grazie a complesse funzioni ottiche digital, una app e un database appositamente creato. Ho appreso una informazione molto dettagliata, senza aver sviluppato un’abilità specifica: sarò in grado di riconoscerla da solo, la prossima volta? Cosa guadagno e cosa perdo? Eh, bella domanda. L’importante sarebbe scegliere sempre con consapevolezza. Perché, tornando al titolo, il rischio è quello di “sdrucciolare” da esseri intelligenti protési verso il futuro, a pròtesi di una tecnologia di cui non sappiamo nulla, ma che già sembra utilizzarci ogni giorno come meri supporti della sua potenza. Sembra. Accenti permettendo.