Se io, cioè chi qui scrive, dico: “sei una persona profonda”, ritengo di rivolgere un complimento. Tuttavia, sempre chi qui scrive sente usare l’espressione “l’America profonda”, con un evidente significato dispregiativo.
Perché?
Ovvero, perché la profondità in senso figurato indica una virtù, mentre la profondità in senso, come dire, geografico, evoca emarginazione?
I dizionari riportano che “profondo”, in senso geografico, ricalca l’inglese “deep south“. In realtà, oggi si legge anche “profondo nord”, o, appunto, “profonda America”, per denotare un luogo remoto, represso culturalmente ed emarginato.
Quando i giornalisti scrivono “America profonda”, per lo più oggi denotano le regioni della cosiddetta “rust belt”, là dove i resti della deindustrializzazione arrugginiscono sotto il sole, insieme alle anime dei suoi abitanti.
La domanda, dunque, rimane: perché la parte “profonda” di uno Stato o di una regione etc, evoca qualità negative? Chi determina che l’area civilmente, socialmente e politicamente corretta sia quella, ad esempio, delle aree metropolitane, a svantaggio delle aree rurali?
Siamo sicuri che, oggi, siano solo le aree metropolitane l’avanguardia più interessante di un futuro prossimo a venire? Siamo sicuri che sia lì, nei centri di grande aggregazione, a pigliar forma il progresso e il conseguente progressismo?
E la domanda non è nuova né originale; se la ponevano, ad esempio, giusto un secolo fa, negli anni venti e trenta, in Italia, ma non solo. Oswald Spengler, nel suo Tramonto dell’Occidente, indicava le città come il luogo “dell’uomo sterilizzato”, fattrici di nomadi e parassiti, masse informi e “fluttuanti”. A loro, preferiva i contadi. Decisamente ingeneroso.
In Italia, ci fu la più schioppettante rivalità tra strapaese e stracittà, nella prima con Longanesi, Malaparte, Maccari, Cardarelli, Soffici etc, grandi e ironici scrittori, che non mancarono certo nella seconda. Negli Stati Uniti, alcune sortite letterarie più recenti sono venute fuori dagli Stati del cosiddetto midwest, con Franzen, Foster Wallace, Markley etc. Nel secolo precedente, il movimento trascendentalista, Whitman, Thoreau, Emerson etc, si animò tra le 4 case campagnole di Concord, paesino da cui molti di loro non si mossero mai.
La domanda, qui, potrebbe essere allora: quanto remoto deve trovarsi un luogo per pensare diversamente? Mica facile, qui, rispondere.
Tutto questo solo per ipotizzare che non ci sia una vera e propria ragione per emarginare le aree remote della vita. E, allora, perché sui giornali intelligenti leggo “profonda America” con il medesimo significato dispregiativo che gli stessi intelligenti™ che scrivono sui giornali intelligenti evocano con “pancia del Paese”?
Chi qui scrive ricorda ancora, e con disagio, gli intelligenti™ nostrani etichettare come sdentati, zotici e ignoranti gli inglesi che fecero vincere la Brexit. E si chiede: non è anche questa una forma di intolleranza? Non solo, non è negare e a priori che ampie zone geografiche possano esprimere legittime e utili idee e posizioni proprie e rappresentarle in un Parlamento?
Riconoscersi o porsi in una minoranza culturalmente superiore che però, secondo le leggi democratiche, non riesce a ottenere la supremazia elettorale rischo di portare a crede che il punto fragile sia la stessa democrazia che non accetta la superiorità culturale di una élite, cioè la sua stessa negazione: la dittatura della minoranza. E questo è un problema non da poco, anche se la minoranza che si considera culturalmente superiore, da quando la democrazia è nata, cerca di preservare comunque la propria rilevanza di élite, attraverso svariate forme di egemonia, tra cui, oggi, quella dei centri di ricerca scientifica e tecnologici.
Torniamo a dove siamo partiti.
Se “profondo” indica un’area geografica sottosviluppata, forse anche la profondità figurata, cioè spirituale e culturale, in un qualche modo, oggi, deve trascinare con sé un significarto negativo.
E, in effetti, così è. La profondità spirituale, oggi, non sembra affatto un elemento competitivo. E come potrebbe esserlo, in una società che fa della superficie, e dunque del superficiale, un ideale sconfinato e illimitato di persuasione?
Non è, oggi, nei fatti, la profondità una dimensione inaccessibile? Chi qui scrive intende: non lo è oramai qualsi in tutto? Ad esempio, negli strumenti che utilizziamo, con la loro accessibilità ridotta sì e no alla superficie di un display luminoso, tutto il resto, anche solo cambiare una lampadina della propria auto, è out, inaccessibile.
Più inquietante: la nostra identità. Non esiste più, non può esistere, alcuna profondità neppure nel nostro mondo interiore, ma tutto deve emergere in superficie e stare perennemente lì, esibito, trasmesso via digitale, archiviato, aggregato, affinché la nostra identità sia monitorata, archiviata e riconoscibile: di noi e dei nostri pensieri non deve restare nulla di ignoto, nascosto in qualche rifugio profondo.
“Sei una persona profonda”, dunque e di per sè, è divenuta l’accusa di perpetuare un atto eversivo. Chi è profondo, in effetti, ha senz’altro qualcosa da nascondere, in quelle profondità. Come chi usa i contanti. No?
Un vero complimento, oggi, non può dunque che essere: “sei una persona davvero superficiale“, cioè uno che non nasconde nulla, ma tutto espone in superficie, vita, emozioni e pensieri compresi, affinché tutti gli altri possano controllare che siano conformi a quelli conformati.
Col poeta:
Veramente più volte appaion cose
che danno a dubitar falsa matera
per le vere cagion che son nascose.
Dante, Purgatorio, XXII 28-30.
Sia mai.