Di Paolo Ceccato
Al mattino, a colazione, ascolto la radio. Una Mivar, rossa, anni ’70,
perfettamente funzionante. Ascolto i programmi, in equilibrio sul filo di quella “perpetua correzione” che li anima. Radiogiornali, format, programmi di intrattenimento mi offrono, con il tè, il conforto di una realtà editoriale, cioè l’edizione corretta della realtà, che manda in onda un concerto di belle e giuste opinioni sui temi, emozioni e preferenza in tendenza. Ascolto, imparo e lascio che ciò che ascolto pian piano corregga, per trasmissione, anche i miei pensieri e
gusti. Confusi e disordinati, li sento poco a poco cedere, riordinarsi in un discorso più scorrevole; il dissenso lascia posto al consenso.
Mi piace questa monodia, ripetuta uguale a più voci, versione unica di un’unica versione, da un unico punto di vista, sempre uguale a sé stesso, che toglie le contraddizioni del mondo.
È una correzione pervasiva, ciarliera e perpetua. Un tim bilding che si cura di me, di me come ascoltatore, sovrascrive il mio quotidiano incerto e lo sostituisce con uno migliore, solo certezze, niente dubbi, iuser frendli, con le istruzioni già pronte per desiderare esattamente quel che il prodotto offre. Giro la monopolina, gracchia, mi sintonizzo su un’altra stazione radio e ritrovo lo stesso piacevole tutto, tutto ordinato e coerente, amichevole, la medesima versione che
si perpetua, che immedesima, seducente, participio presente. Presente, partecipo.
“Perpetua! Perpetua!”
“Vengo”, rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio.
Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, 1840.
Che dire: Grazie.
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