Di Paolo Ceccato
Semplici domande.
Che cosa legittima la Commissione Europea a giudicare le decisioni di un governo democratico in carica, commentando e suggerendo correzioni economiche e fiscali?
Quando il Commissario europeo agli Affari economici, dott. Paolo Gentiloni, dichiara: “Quello che noi chiediamo”, ecco: quel “noi”, prima persona plurale, a che cosa si riferisce? Noi chi? “Noi” dell’Europa, ovviamente. Va bene. Ma su quale base quel “noi dell’Europa” esprimerebbe un giudizio più autorevole, rispetto a quello di un governo di una Stato nazione, riguardo a indirizzi e
politiche sociali, economiche o fiscali?
Forse la ragione di quella che potrebbe sembrare una ingerenza sta nella volontà di creare una Unione Europea sempre più stretta. Va bene, ma la sostanza, nel merito, non cambia: cosa “c’ha o c’avrebbe di più” questa Unione Europea, rispetto, ad esempio, a un Paese come l’Italia, con le sue istituzioni, il suo Parlamento eletto, le sue leggi, la sua storia, le sue tradizioni, i suoi errori?
Perché un politico italiano dovrebbe esprimere meglio la sua intelligenze e le sue competenze se entra nella Commissione Europea, invece di svolgere il proprio incarico in un Parlamento nazionale?
Qual è la natura di questo “salto” a un livello qualitativamente più elevato?
Non sarà che questa diversità dell’Unione europea sta proprio nel non essere uno Stato, ovvero nel poter essere tutto quel che vogliamo, perché entità astratta, priva di sostanza, di identità, di lingua e radici comuni, tanto da prefigurasi come l’avvento di quella “seconda patria in cui tutto ciò che si fa è innocente”, di cui scrive Robert Musil nel suo L’Uomo senza qualità?
Perché dovremmo cedere la nostra sovranità a questa seconda patria, le cui liturgie palingenetiche troppo si confondono con l’entusiasmo che pervsade i villeggianti? E chi mi assicura che l’Unione Europea, superati e sostituiti gli Stati nazionali, non si trasformi essa stessa in un Super Stato, peggiore degli Stati nazioni du cui già conosciamo pregi e difetti, Italia compresa?
E quel titolo: “Dal sovranismo nazionale alla sovranità europea”, la cui ingenuità cadrebbe nel ridicolo, se non esprimesse la soddisfazione di un potere che si crede compiuto, al punto da scommettere su un lettore inerme, da raggirare con vuoti verbalismi e slogan irrilevanti.
Se, invece, avesse ragione lo storico Lucien Febvre, quando scrisse:
“L’Europa super-patria di sogno. Ma perché una super-patria, quando si è minacciati di perdere la propria patria? (…) Questa Europa che può prendere corpo, ma come creazione di schiavitù, come una realizzazione di quel sogno mostruoso di dominazione universale che tanti uomini, tanti re, tante guerre hanno accarezzato… (…) E a cosa servirebbe, questa Europa? Alla pace?
Andiamo. Non ce lo si nasconde nemmeno: servirebbe a nuove guerre tra continente e continente, a nuovi cedimenti e a nuovi armamenti. (…) Un’Europa così unificata sarebbe pronta immediatamente a lutti intercontinentali.
Inghiottirebbe l’Africa. Si getterebbe sull’Asia. Ma cosa direbbe l’America?”.
Lucien Febvre, L’Europa. Storia di una civiltà, ciclo di lezioni, 1944-1945.
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