di Vito Mancuso
su Hanna Arendt
«Hannah Arendt ha scritto che quei pochi che durante il nazismo si rifiutarono di obbedire agli ordini iniqui della dittatura non lo fecero in forza di un sentimento del dovere ma in forza di un altro sentire, più semplice e al contempo più profondo: «Non sentirono in se stessi un’obbligazione, ma agirono semplicemente in accordo con qualcosa che per tutti loro era autoevidente». La filosofa prosegue dicendo che la loro coscienza non disse loro: «Questo non devo farlo», ma piuttosto: «Questo non posso farlo». Che cosa significa?
Significa che alcuni esseri umani evitano di infrangere i valori per i quali vivono non perché sentono dentro di sé la pressione di un dovere o di un comandamento, ma perché avvertono come una specie di disgusto per le conseguenze della loro infrazione. E dicendo disgusto si entra nel merito di una questione di gusto. Si percepisce cioè che vi sono azioni compiendo le quali si verrebbe meno a noi stessi e a ciò che per noi è più prezioso, con la conseguenza di vergognarci terribilmente di fronte alla nostra coscienza e di non poter sopportare di esistere con un sé così brutto e così sporco. L’etica appare qui come una questione estetica che si nutre di amore per la bellezza e per la pulizia. È la fondazione estetica dell’etica, nel senso che l’esperienza originaria motivante è di tipo estetico, discende da una sorta di attrazione per la bellezza della giustizia».
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Da Alessandro Barbero, sul libro di Hannah Arent “Le Origini del Totalitarismo” (1951, terminato nel 1949), con una analisi lucida del nazifascismo e del comunismo, e di come siano riusciti a farsi acclamare da folle immense.